Arci Jesi-Fabriano


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SHAMBHALA CENTRO YOGA E THAI BODY WORK JESI

L’associazione è nata con lo scopo di promuovere la conoscenza e la pratica delle arti e discipline orientali legate al mantenimento e allo sviluppo della salute e del benessere. È stata fondata nel 2001 da Tiziana Gherardi e da Roberta Ambrosi come frutto di un lungo percorso di formazione in Italia e all’estero. Nel 2002 diviene Associazione Culturale ARCI abbracciandone i principi di promozione e solidarietà sociale. Poco dopo inizia la sua collaborazione con il Centro Sollievo di Jesi con corsi di yoga rivolti a persone sofferenti di disagio mentale .

La formazione professionale di entrambe le insegnanti presso centri internazionali di yoga, continua a tutt’oggi, portando alla conoscenza di nuove tecniche e contaminazioni che hanno condotto negli ultimi anni alla nascita del corso di yoga presso il centro di sostegno a donne operate al seno NOI COME PRIMA di Castelferretti, al corso di yoga presso lo SPRAR di Chiaravalle rivolto a donne rifugiate politiche e alla creazione del “Laboratorio di TeatroYoga” in cui la relazionalità che si sviluppa dalla espressione corporea condivisa, si unisce alla tradizionale pratica delle asana, esplorando nuove modalità di conoscenza di se stessi e degli altri.

L’associazione promuove annualmente corsi di yoga e thai body work e periodicamente seminari, incontri e conferenze relativi ai propri campi d’ interesse invitando esperti italiani e stranieri e organizza ogni anno lo Shambhala Yoga Festival..for Wellness evento gratuito e aperto alla comunità, spazio di informazione e confronto sulle tematiche legate allo yoga , al benessere e alla salute naturale.

I numerosi viaggi di approfondimento e studio in Nepal delle due fondatrici, hanno portato al gemellaggio nell’ agosto 2008 con la UNITED YOUTH CLUB ASSOCIATION ONLUS con sede a Kathmandu, presieduta da Mr Krishna Baktha Manhandhar.

Da ottobre 2010 l’ associazione Shambhala è riconosciuta e affiliata all’AROGYA ASHRAM INTERNATIONAL SCHOOL OF YOGA di Kathmandu, Nepal, diretta dal dr. PRAMOD GAUTAM.

Il sito: http://www.shambhalayoga.org
La pagina FB: https://www.facebook.com/shambhala.jesi

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Referendum no-triv: oltre il quesito

di Marzio Galeotti e Alessandro Lanza, lavoce.info
(www.lavoce.info/archives/40517/referendum-notriv-oltre-il-quesito/)

Lo scontro sul referendum “no-triv” ruota intorno a visioni e scelte diverse che investono la politica energetica e ambientale del nostro paese. La produzione interna di idrocarburi è esigua rispetto al fabbisogno. L’importanza delle rinnovabili e la ricerca di alternative al petrolio nei trasporti.

Il tema del referendum

Come è accaduto per altre, precedenti, consultazioni popolari, anche quella del 17 aprile sta assumendo una valenza che va molto oltre il significato del mero quesito referendario. Si è infatti acceso un dibattito intorno al referendum “no-triv” che divide la politica e l’opinione pubblica.

Il fatto è che questo referendum implica una scelta di prospettiva, di visione, di valori differenti, se non addirittura opposti, che investono la politica energetica e ambientale del nostro paese. Ed è la vera ragione per cui un quesito poco significativo assume i contorni di una battaglia civile-economica-politica. Tecnicamente, il quesito riguarda le concessioni per estrazioni di idrocarburi in mare entro le 12 miglia (circa 22 chilometri) e pertiene solo a concessioni già esistenti: la domanda riguarda l’abrogazione della norma che ne limita la durata alla scadenza prevista dalla legge. In pratica, per un numero ristretto di quelle esistenti (sono 21 su 69 in mare) il “no” consentirebbe di sfruttare le concessione fino all’esaurimento del giacimento.

La durata iniziale delle concessioni è di trenta anni, rinnovabile una prima volta di dieci, poi per cinque, quindi per altri cinque anni dopodiché, se il pozzo non è esaurito, il concessionario può chiedere di sfruttarlo fino all’esaurimento. È di questa estensione che stiamo dunque parlando. Continua a leggere


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Sei risposte ai dubbi sulle trivelle

di Marina Forti, Internazionale
(www.internazionale.it/opinione/marina-forti/2016/04/12/dubbi-risposte-referendum-trivelle)

«Il referendum del 17 aprile riguarda l’estrazione di idrocarburi offshore entro le 12 miglia nautiche dalla costa. Dunque riguarda il futuro di 88 piattaforme oggi esistenti entro le 12 miglia, che fanno capo a 31 concessioni a “coltivare” (la coltivazione indica la zona dove una compagnia ha il permesso di estrarre gas o petrolio), oltre a quattro piattaforme relative a permessi di ricerca ora sospesi. Sono in buona parte nell’Adriatico, un po’ nello Ionio e nel mare di Sicilia, come si vede da questa mappa interattiva.

In questione c’è la durata delle concessioni. Il quesito infatti chiede di abrogare la norma, introdotta nella legge di stabilità entrata in vigore il 1 gennaio 2016, che permette di estendere una concessione “per la durata di vita utile del giacimento”, cioè per un tempo indefinito. Se vincerà il sì quella frase sarà cancellata. In tal caso torneremo semplicemente a quanto previsto in precedenza dalla normativa italiana e comunitaria: tutte le concessioni per lo sfruttamento di idrocarburi o di risorse minerarie, a terra o in mare, hanno durata di trent’anni, con possibilità di proroghe per altri complessivi venti.

In altre parole, sarà cancellata un’anomalia. In effetti è insolito che una risorsa dello stato, cioè pubblica, sia data in concessione senza limiti di tempo prestabiliti (ed è per questo che la corte costituzionale ha giudicato ammissibile il quesito). Tra l’altro, è un privilegio accordato alle sole concessioni entro la fascia di 12 miglia, non a quelle a terra o in mare più aperto.

Dunque, se vince il sì le piattaforme oggi in attività continueranno a lavorare fino alla scadenza della concessione (o dell’eventuale proroga già ottenuta), ma non oltre. Certo, in gioco c’è molto di di più. I sostenitori del sì rimandano alla politica energetica del paese, parlano di energie rinnovabili, di investimenti in efficienza energetica. Ma sono accusati di mettere a repentaglio attività economiche e posti di lavoro.

Il referendum è inutile?

Chi si oppone alla consultazione ricorda che la legge di stabilità 2016 ha già bloccato il rilascio di nuovi titoli (permessi) per estrarre idrocarburi entro le 12 miglia. La durata della concessione però non è irrilevante, e ha risvolti molto pratici. Infatti, il blocco di nuove concessioni non impedisce che all’interno di concessioni già esistenti siano perforati nuovi pozzi e costruite nuove piattaforme, se previsto dal programma di lavoro. Potrebbe essere il caso della concessione Vega, nel mar di Sicilia, dove l’Eni progetta da tempo una nuova piattaforma (Vega B) da aggiungere a quella oggi in esercizio (la concessione scade nel 2022).

Ancora più importante: prolungando la durata della concessione si rinvia il momento in cui le piattaforme obsolete vanno smantellate e rimosse. È un’operazione costosa che da contratto spetta alle aziende concessionarie insieme al ripristino ambientale, quindi la spesa dovrebbe essere già inclusa nei bilanci. “Sospetto che le compagnie petrolifere puntino anche a questo, a rinviare in modo indefinito il momento in cui dovranno smantellare piattaforme obsolete”, dice Alessandro Giannì, direttore delle campagne di Greenpeace Italia.

Se vince il sì chiuderanno piattaforme operative e perderemo posti di lavoro?

È una delle obiezioni di chi è contrario al referendum. Ma si può confutare. Primo, la vittoria del sì non significa la chiusura immediata di tutte le attività in corso: le concessioni oggi attive scadranno tra il 2017 e il 2034. Il referendum poi non mette in questione le attività di manutenzione né, ovviamente, quelle di smantellamento e ripristino ambientale.

Quanto ai posti di lavoro, i numeri sono incerti. Assomineraria, l’associazione delle industrie del settore, parla di 13mila persone; la Filctem, la federazione dei lavoratori chimici della Cgil, parla di circa diecimila addetti solo a Gela e Ravenna. L’Isfol, ente pubblico di ricerca sul lavoro, parla di novemila occupati in tutto il settore (mare e terra).

Quanti di questi posti siano legati alle piattaforme entro le 12 miglia è opinabile. Il sindacato dei metalmeccanici Fiom Cgil afferma che sono meno di cento. “Considerando l’indotto, arriviamo a una stima massima di circa tremila persone”, dice Giorgio Zampetti, esperto di questioni petrolifere per Legambiente.

Una cosa certa è che le attività sulle piattaforme non sono labour intensive (cioè basate soprattutto sulla forza lavoro). Per lo più sono manovrate in remoto: gli addetti lavorano soprattutto nella fase di trivellazione, ma intervengono ben poco nella produzione (darebbe lavoro, casomai, smantellare i vecchi impianti). Gli attivisti di Greenpeace sono rimasti sorpresi, l’anno scorso, quando sono riusciti ad avvicinarsi alla piattaforma Prezioso, di fronte a Gela nel mar di Sicilia, l’hanno scalata e vi hanno appeso un gigantesco striscione, senza trovare ostacoli né risposta: il fatto è che non c’era proprio nessuno.

Quanto petrolio e quanto gas contengono i fondali italiani?

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Giornata della Memoria delle vittime di mafia, Arci Jesi-Fabriano “adotta” Gelsomina Verde

117siut“Gelsomina Verde è stata ‘punita’ perché frequentava un uomo che apparteneva ad uno dei due clan in guerra a Napoli. Aveva 22 anni: l’hanno trovata ieri notte a Secondigliano, carbonizzata nella sua auto con un colpo di pistola in testa”, così la Repubblica racconta, il 22 novembre 2004, la vittima numero 114 della camorra a Napoli dall’inizio di quell’anno.

Arci Jesi-Fabriano partecipa alla XX Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo di tutte le vittime innocenti delle mafie, promossa da Libera e Avviso Pubblico e che si terrà sabato 21 marzo a Bologna, e ha aderito al progetto “La Verità illumina la Giustizia”, scegliendo di adottare tra gli oltre 900 nomi di vittime di mafia quello di Gelsomina Verde.

La sua storia è stata raccontata anche da Roberto Saviano, in Gomorra:

I tizi uscirono dal furgoncino con i guanti in lattice, sporchissimi, usati e riusati mille volte, e si misero all’opera. Infilarono il cadavere in una busta, quella nera, i body bag in cui solitamente si chiudono i corpi dei  soldati morti.  Il cadavere sembrava uno di quelli trovati sotto la cenere del Vesuvio dopo che gli archeologi avevano versato il gesso nel vuoto lasciato dal corpo. Le persone intorno all’auto erano diventate decine e decine, ma tutte in silenzio. Sembrava non ci fosse nessuno. Neanche le narici azzardavano a respirare troppo forte. Da quando è scoppiata la guerra di camorra molti hanno smesso di porre limite alla propria sopportazione. E sono lì a vedere cos’altro accadrà. Ogni giorno apprendono cos’altro è possibile, cos’altro dovranno subire. Apprendono, portano a casa, e continuano a campare. I carabinieri iniziano a fare le foto, parte il furgoncino col cadavere. Vado in Questura. Qualcosa diranno su questa morte. In sala stampa ci sono i soliti giornalisti e qualche poliziotto. Dopo un po’ si alzano i commenti: «Si ammazzano tra loro, meglio così!». «Se fai il camorrista, ecco cosa ti accade.» «Ti è piaciuto guadagnare e ora goditi la morte, munnezza.» I soliti commenti, ma sempre più schifati, esasperati. Come se il cadavere fosse stato lì e tutti avessero qualcosa da rinfacciargli, questa notte rovinata, questa guerra che non finisce più, questi presidi militari che gonfiano ogni spigolo di Napoli. I medici abbisognano di lunghe ore per identificare il cadavere. Qualcuno gli trova il nome di un capozona scomparso qualche giorno prima. Uno dei tanti, uno dei corpi accatastati in attesa del peggior nome possibile nelle celle frigo all’ospedale Cardarelli. Poi giunge la smentita.

Qualcuno si mette le mani sulle labbra, i giornalisti deglutiscono tutta la saliva fino al punto da seccare la bocca. I poliziotti scuotono la testa guardandosi la punta delle scarpe. I commenti s’interrompono colpevoli. Quel corpo era di Gelsomina Verde, una ragazza di ventidue anni. Sequestrata, torturata, ammazzata con un colpo alla nuca sparato da vicino che le era uscito dalla fronte. Poi l’avevano gettata in una macchina, la sua macchina, e l’avevano bruciata. Aveva frequentato un ragazzo, Gennaro Notturno, che aveva scelto di stare con i clan e poi si era avvicinato agli Spagnoli. Era stata con lui qualche mese, tempo prima. Ma qualcuno li aveva visti abbracciati, magari sulla stessa Vespa. In auto assieme. Gennaro era stato condannato a morte, ma era riuscito a imboscarsi, chissà dove, magari in qualche garage vicino alla strada dove hanno ammazzato Gelsomina. Non ha sentito la necessità di proteggerla perché non aveva più rapporti con lei. Ma i clan devono colpire e gli individui, attraverso le loro conoscenze, parentele, persino gli affetti, divengono mappe. Mappe su cui iscrivere un messaggio. Il peggiore dei messaggi. Bisogna punire. Se qualcuno rimane impunito è un rischio troppo grande che legittima la possibilità di tradimento, nuove ipotesi di scissioni. Colpire e nel modo più duro. Questo è l’ordine. Il resto vale zero. Allora i fedelissimi di Di Lauro vanno da Gelsomina, la incontrano con una scusa. La sequestrano, la picchiano a sangue, la torturano, le chiedono dov’è Gennaro. Lei non risponde. Forse non sa dove si trova, o preferisce subire lei quello che avrebbero fatto a lui. E così la massacrano. I camorristi mandati a fare il “servizio” forse erano carichi di coca o forse dovevano essere sobri per cercare di intuire il più microscopico dettaglio. Ma è risaputo quali metodi usano per eliminare ogni sorta di resistenza, per annullare il più minuscolo afflato di umanità. Il fatto che il corpo fosse bruciato mi è sembrato un modo per cancellare le torture. Il corpo di una ragazza seviziata avrebbe generato una rabbia cupa in tutti, e dal quartiere non si pretende consenso, ma certamente non ostilità. E allora bruciare, bruciare tutto. Le prove della morte non sono gravi. Non più gravi di qualsiasi altra morte in guerra. Ma non è sostenibile immaginare come è avvenuta quella morte, come è stata compiuta quella tortura. Così tirando con il naso il muco dal petto e sputando riuscii a bloccare le immagini nella mia mente.

Gelsomina Verde, Mina: il diminutivo con cui veniva chiamata nel quartiere. La chiamano così anche i giornali quando cominciano a vezzeggiarla col senso di colpa del giorno dopo. Sarebbe stato facile non distiguerla dalla carne di quelli che si ammazzano fra di loro. O, se fosse stata viva, continuare a considerarla la ragazza di un camorrista, una delle tante che accettano per i soldi o per il senso di importanza che ti dà. Nulla più che l’ennesima “signora” che gode della ricchezza del marito camorrista. Ma il “Saracino”, come chiamano Gennaro Notturno, è agli inizi. Poi se diventa capozona e controlla gli spacciatori, arriva a mille-duemila euro. Ma è una carriera lunga. Duemilacinquecento euro pare sia il prezzo per l’indennizzo di un omicidio. E poi se hai bisogno di togliere le tende perché i carabinieri ti stanno beccando, il clan ti paga un mese al nord Italia o all’estero. Anche lui forse sognava di diventare boss, di dominare su mezza Napoli e di investire in tutt’Europa.
Se mi fermo e prendo fiato riesco facilmente a immaginare il loro incontro, anche se non conosco neanche il tratto dei visi. Si saranno conosciuti nel solito bar. I maledetti bar meridionali di periferia intorno a cui circola come un vortice l’esistenza di tutti, ragazzini e vecchi novantenni catarrosi. O forse si saranno incontrati in qualche discoteca. Un giro a piazza Plebiscito, un bacio prima di tornare a casa. Poi i sabati trascorsi assieme, qualche pizza in compagnia, la porta della stanza chiusa a chiave la domenica dopo pranzo quando gli altri si addormentano sfiniti dalla mangiata. E così via. Come si fa sempre, come accade per tutti e per fortuna. Poi Gennaro entra nel Sistema. Sarà andato da qualche amico camorrista, si sarà fatto presentare e poi avrà iniziato a faticare per Di Lauro. Immagino che forse la ragazza avrà saputo, avrà tentato di cercargli qualcos’altro da fare, come spesso accade a molte ragazze di queste parti, di sbattersi per i propri fidanzati. Ma forse alla fine si sarà dimenticata del mestiere di Gennaro. Insomma, è un lavoro come un altro. Guidare un’auto, trasportare qualche pacco, si inizia con piccole cose. Da niente. Ma che ti fanno vivere, ti fanno lavorare e a volte provare anche la sensazione di essere realizzato, stimato, gratificato. Poi la storia tra loro è finita.

Quei pochi mesi però sono bastati. Sono bastati per associare Gelsomina alla persona di Gennaro. Renderla “tracciata” dalla sua persona, appartenente ai suoi affetti. Anche se la loro relazione era terminata, forse mai realmente nata. Non importa. Sono solo congetture e immaginazioni. Ciò che resta è che una ragazza è stata torturata e uccisa perché l’hanno vista mentre dava una carezza e un bacio a qualcuno, qualche mese prima, in qualche parte di Napoli. Mi sembra impossibile crederci. Gelsomina sgobbava molto, come tutti da queste parti. Spesso le ragazze, le mogli devono da sole mantenere le famiglie perché moltissimi uomini cadono in depressione per anni. Anche chi vive a Secondigliano, anche chi vive nel “Terzo Mondo”, riesce ad avere una psiche. Non lavorare per anni ti trasforma, essere trattati come mezze merde dai propri superiori, niente contratto, niente rispetto, niente danaro, ti uccide. O divieni un animale, o sei sull’orlo della fine. Gelsomina quindi faticava come tutti quelli che devono fare almeno tre lavori per riuscire ad accaparrarsi uno stipendio che passava per metà alla famiglia. Faceva anche del volontariato con gli anziani di queste parti, cosa su cui si sono sprecate le lodi dei giornali che parevano fare a gara per riabilitarla.


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Marche: una regione a rischio frane e allagamenti

di Tullio Bugari, Arci Marche

(pubblicato su Arci.it: www.arci.it/blog/ambiente/ambiente/alluvione-nelle-marche-danneggiati-anche-circoli-arci-senigallia/)

Gli automobilisti che percorrevano la statale Arceviese, verso l’interno, hanno incontrato lungo la strada un torrente d’acqua che gli correva incontro. Più a sud – racconta una ragazza – “all’improvviso abbiamo visto un’ondata di acqua fangosa che saliva lungo la strada”. Ha invaso scantinati, giardini e appartamenti al piano terra. I residenti dei piani bassi si sono rifugiati ai piani superiori, come i ragazzi di una scuola, tratti in salvo alla sera dai vigili del fuoco con il gommone. Chi era in altre zone è rimasto bloccato fuori casa. Centinaia gli interventi dei vigili del fuoco con le idrovore. L’acqua ha iniziato a ritirarsi il giorno dopo lasciando strati di fango. Molte le auto danneggiate. Nella frazione di Borgo Bicchia ci sono state tre vittime; la terza è deceduta in ospedale dopo due giorni.

Allerta meteo in ritardo? C’è chi fa notare che mentre alcune zone della città andavano sott’acqua, sul sito della protezione civile era previsto un allarme moderato.

La “bomba” d’acqua ha causato danni e allagamenti anche in altre zone della regione (Pesaro, Jesi, Osimo, Porto San Giorgio, Porto Sant’Elpidio, il Fermano e il Maceratese). A Senigallia, oltre al Misa, esondato fuori città, hanno straripato diversi fossi e torrenti e l’acqua ha raggiunto velocemente i due metri. Coinvolta anche la statale adriatica e il lungomare di levante. Hanno tenuto, fortunatamente, gli argini del Misa nel centro storico, con l’acqua al livello estremo. Sarebbe stato un disastro totale. I danni, ingenti, interessano metà Senigallia, una città di circa 40 mila abitanti. Sono saltati i collegamenti telefonici e il 70% della popolazione è rimasta senza energia elettrica.

La zona più colpita è a ridosso della autostrada, da tempo con i lavori in corso per la terza corsia. Colpite anche zone commerciali e industriali, in alcuni capannoni l’acqua ha superato il metro e mezzo danneggiando materiali e macchinari. Situazione drammatica anche nelle frazioni dei comuni limitrofi.

Perfino la caserma dei vigili del fuoco ha subito ingenti danni. In aiuto sono arrivati oltre 200 vigili da Toscana, Emilia Romagna e Abruzzo, dal resto delle Marche, e squadre di soccorritori acquatici da Venezia e Ravenna.

La Regione ha chiesto lo stato di calamità e in città tutti si sono attivati per spalare via  la melma. Nella regione, l’ultima inondazione c’era stata il 2 marzo 2011, con tre vittime; altre alluvioni c’erano state a dicembre e nel febbraio scorso. L’Irpi-Cnr, in un rapporto, ha di recente cartografato oltre 1500 frane.

Anche il nostro territorio, purtroppo, come altri, è esposto ai problemi del dissesto. Secondo il Ministero dell’Ambiente sono 236 – praticamente quasi tutti – i comuni marchigiani a rischio idrogeologico, di cui 124 a rischio frana, 1 a rischio alluvione e 111 a rischio frana e alluvione. Secondo uno studio di Legambiente sul consumo di suolo, il paesaggio costiero ha conosciuto una forte urbanizzazione che ha fatto scomparire sotto il cemento circa il 60% della fascia litoranea. Sono indispensabili interventi strutturali per la messa in sicurezza del territorio e prestare invece uno sguardo più critico alle grandi infrastrutture che il territorio lo rendono più fragile.

Senigallia vuole fare in fretta, anche perché la stagione turistica è alle porte, ma il lavoro da fare è grande. Nell’immediato, si apre anche, insieme al censimento dei danni, la partita dei risarcimenti – se e quanti ce ne saranno – da seguire con molta attenzione; ma oltre a questi, occorrerà chiarire cosa e perché accaduto, come prevenire davvero, quali gli interventi necessari, non solo di emergenza ma che tengano conto di un equilibrio più strutturale.

 

 

I circoli Arci nell’alluvione del 3 Maggio 2014

di Sergio Montesi, Arci Senigallia

 
L’ esondazione del fiume Misa ha colpito una grossa parte di Senigallia con enormi danni: sommerse case, scuole, capannoni e colture.
I quartieri più colpiti, Borgo Bicchia e Borgo Molino, dove ci sono state anche vittime.

Nella fase più acuta, mentre il fiume stava esondando, siamo concordi con i molti che lo hanno provato direttamente, c’è stata più di una mancanza da parte delle cosiddette autorità. Oltre alla prevenzione, abbiamo colto la mancanza di coordinamento per gli interventi immediati, l’evacuazione delle scuole e la messa in sicurezza delle persone in stato di pericolo. Comunque i soccorritori hanno dato il massimo che potevano, per portare soccorso e aiuto, e più importante ancora, molti ora stanno aiutando e lavorando: studenti, cittadini, volontari e addetti, per poter ripartire.

Tra i nostri Circoli, il colpo più duro lo hanno subito il Circolo Arci Casa del Popolo di Borgo Bicchia e il Circolo Arci di Borgo Molino: gli restano solo i muri della sede, hanno perso tutte le attrezzature e gli arredi. Parlando con i due presidenti ci siamo posti, con imbarazzo, la questione di chiedere aiuto per i circoli, quando la totalità dei loro stessi soci sono sfollati, hanno le abitazioni parzialmente inagibili, e hanno perso le automobili per quando potranno riprendere il lavoro.
Alla fine, però abbiamo concordato che i circoli sono un luogo di aggregazione e socialità importante per queste comunità e vanno ricostruiti, per tornare a vivere con la giusta serenità.

Ci troviamo, quindi, a chiedere all’Arci nazionale una sottoscrizione, da rivolgere a tutti i Comitati e Circoli. Il comitato territoriale Senigallia, farà da tramite per destinare i fondi ai due Circoli, che ne decideranno in autonomia l’utilizzo, sia per la ricostruzione diretta dei Circoli, ma anche per aiutare persone e famiglie, che si trovano nelle situazioni più drammatiche.
L’Arci di Senigallia ringrazia per la vicinanza già dimostrata in questi giorni.

 


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Approfondimenti: La fine della classe media

Licenziamenti, delocalizzazioni, scomparsa dei sindacati. Negli ultimi quarant’anni i lavoratori statunitensi hanno perso diritti e potere di contrattazione. Le aziende si arricchiscono, ma le famiglie sono sempre più povere

Harold Meyerson, The American Prospect, Stati Uniti. Da Internazionale n.1041. ©

Il fiume di rivelazioni sul caso Watergate, le acrobazie del presidente Richard Nixon per insabbiare la verità, le audizioni per l’impeachment e infine le dimissioni: erano soprattutto queste le notizie di cui parlavano gli statunitensi nel 1974. Quasi nessuno aveva fatto caso a un particolare che all’epoca era sembrato quasi una curiosità statistica. Quell’anno, per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale, i salari degli americani erano diminuiti.

Dal 1947 le condizioni dei cittadini di tutte le fasce di reddito erano migliorate ogni anno. L’alta marea dell’economia, nella celebre dichiarazione del presidente John F. Kennedy, faceva salire tutte le barche. Nel quarto di secolo dal dopoguerra in poi la produttività era cresciuta del 97 per cento e i salari mediani del 95 per cento. Come osservava nel 1958 l’economista John Kenneth Galbraith in La società opulenta, la nazione, con la sua nuova borghesia, era diventata più egualitaria. Il quinto più povero della popolazione aveva visto aumentare il proprio reddito del 42 per cento dalla fine della guerra, mentre i redditi del quinto più ricco erano cresciuti di appena l’8 per cento. Gli economisti l’avrebbero chiamata l’epoca della “grande compressione”.

Questo egualitarismo, ovviamente, era molto circoscritto. Gli afroamericani avevano da poco ottenuto la parità dei diritti civili e per loro l’uguaglianza economica restava un miraggio. All’inizio degli anni settanta un numero senza precedenti di donne entrò nel mercato del lavoro e dovette affrontare profonde discriminazioni. Le nuove generazioni di lavoratori si ribellavano contro l’alienazione della vita in fabbrica organizzando scioperi in tutto il Midwest. Nessuno però poteva negare che nel 1974 gli americani avessero più agi e sicurezze rispetto a un quarto di secolo prima. Dalla fine della guerra il reddito familiare mediano, cioè quello a metà nella scala dei redditi, era più che raddoppiato.

Poi tutto cambiò. Nel 1974 i salari scesero del 2,1 per cento e il reddito familiare mediano a 1.500 dollari. È vero, fu un anno di lieve recessione, ma il paese aveva già affrontato cinque crisi nel corso di venticinque anni di prosperità senza che ci fosse una contrazione dei salari. Quello che all’epoca nessuno aveva capito era che non si trattava di un’anomalia passeggera: il 1974 avrebbe segnato un punto di svolta nella storia economica del paese. Da allora la marea dell’economia ha continuato a salire, ma sempre più barche sono rimaste ancorate al fondo. La produttività è aumentata dell’80 per cento, ma la retribuzione mediana è cresciuta appena dell’11 per cento. I posti di lavoro a medio reddito degli anni del boom postbellico si sono ridotti in modo sproporzionato e sono aumentati in modo altrettanto sproporzionato i lavori sottopagati. Il lavoro è diventato meno sicuro. La previdenza è stata tagliata. La parola “esubero”, che un tempo faceva pensare a un allontanamento temporaneo dal posto di lavoro, oggi è sinonimo di licenziamento. Continua a leggere


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Approfondimenti: L’ultima tentazione razzista, di Tahar Ben Jelloun

Fonte: www.presseurop.eu/it/content/article/4329431-l-ultima-tentazione-razzista

Oggi in Europa assistiamo a una serie di derive. Si comincia dalle parole, ma poi si può arrivare fino ai forni crematori.

Tahar Ben Jelloun

Il razzismo è proprio dell’uomo. È un dato di fatto: tanto vale prenderne atto, impedire che progredisca e combatterlo per legge. Ma non basta. È necessario educare, dimostrare l’assurdità delle sue basi, smontare i suoi meccanismi, non abbassare mai la guardia. In questi ultimi tempi la società francese è percepita come un contesto violentemente razzista, ma in fondo non lo è più di tante altre. Il rifiuto dello straniero, del diverso, di chi è visto come una minaccia per la propria sicurezza è un riflesso universale, che può prendere di mira chiunque. In certi casi questa ripulsa può focalizzarsi su una comunità, ma ciò non vuol dire che le altre non ne saranno colpite. L’esercizio dell’odio non conosce discriminazioni: nessuno può credersi al riparo. Perciò vorrei rassicurare coloro che in Francia incitano a un “razzismo contro i bianchi”: chi è roso dal razzismo non ama nessuno. continua…


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Approfondimenti: La sordità delle élite europee, di Barbara Spinelli

Fonte: www.presseurop.eu/it/content/article/4305491-la-sordita-delle-elite-europee

Criminalizzare i movimenti di protesta non serve a niente: non sono gli euroscettici che minacciano l’Ue, ma la reticenza dei governi nazionali a cedere la loro sovranità.

Sono d’accordo con l’auspicio espresso domenica da Eugenio Scalfari: che l’Europa federale nasca, e la moneta unica si salvi. In caso contrario avremo, al posto dell’Unione, tanti staterelli senza lode ma non senza infamia, non amici ma più che mai vassalli della potenza Usa. Torneremo alla casella di partenza: vinti dai nostri nazionalismi come nelle guerre mondiali del ‘900.

Sono meno d’accordo con il giudizio severo sui movimenti di protesta che ovunque nascono contro l’Europa come oggi è fatta, e ho un’opinione assai meno perentoria su 5 Stelle. Chi ascolti Grillo con cura sarà certo colpito dalle sue incongruenze; specie quando indulge alla xenofobia, procacciatrice di voti. Ma non s’imbatterà nel nazionalismo, né in vero antieuropeismo. Populismo è un’ingiuriosa parola acchiappatutto che non spiega nulla. Come spesso nella nostra storia, è sotterfugio autoassolutorio di chiuse oligarchie: lo spiega Marco D’Eramo in uno dei migliori saggi usciti in Europa sul populismo come spauracchio (Micromega 4-13). Serve a confondere l’effetto (la rabbia dei popoli, il suo uso) con la causa (l’Europa malfatta, malmessa). Letta fa la stessa confusione, nell’intervista alla Stampa di venerdì.

continua…


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Approfondimenti: gli OGM e l’Europa

di Luca Bugari

La Corte di giustizia europea ha recentemente condannato l’Italia per aver vietato la coltivazione di mais Mon810 alla multinazionale statunitense Pioneer Hi Bred, società leader a livello mondiale  nel miglioramento genetico applicato all’agricoltura e specializzata nella produzione e vendita di ibridi di mais. I giudici europei hanno sentenziato: “La messa in coltura di organismi geneticamente modificati, quali le varietà del mais Mon810, non può essere assoggettata a una procedura nazionale di autorizzazione”, ricordando che “ad uno Stato membro è vietato opporsi in via generale alla messa in coltura sul suo territorio di tali organismi”.
In realtà l’Italia non è l’unico paese ad essersi opposto. La Francia ha invocato la clausola di salvaguardia, con l’intento di impedire la messa a coltura del mais GM almeno fino a quando non saranno fornite ulteriori prove scientifiche che dimostrino che tale varietà di mais GM resistente agli insetti, non rappresenti una minaccia per la salute e l’ambiente. La stessa Monsanto creatrice del mais Mon810 ha annunciato nei giorni scorsi che il mais geneticamente modificato Mon810 non sarà venduto in Francia nel 2012 o oltre, a causa del clima politico sfavorevole.

continua a leggere…