Ieri sera, in occasione dei 44 anni dalla strage di Piazza Fontana, rappresentanti di nove associazioni jesine – il Centro Studi Libertari “Luigi Fabbri”, ANPI Jesi, Arci Jesi-Fabriano, SpaziOstello Jesi, Associazione Italia Cuba di Senigallia, Associazione Antigone Marche, Casa delle Donne di Jesi, Casa delle Culture di Jesi, Libera contro le Mafie-presidio di Jesi – hanno voluto ricordare quell’eccidio ancora impunito ritrovandosi nell’atrio del Comune per deporre dei fiori sotto la lapide che commemora quelle vittime.
Dal comunicato: “Se lo stragismo politico e mafioso sembrano appartenere al passato – è scritto sul comunicato di convocazione – non per questo non si continua a morire innocenti a causa di una società gerarchica, corrotta e avida solo di profitto e potere. Si muore in fabbrica per un lavoro precario, pericoloso, sottopagato … negato. Si muore davanti alle coste italiane in cerca di un futuro migliore, in fuga da guerre e miserie. In fuga da guerre che si chiamano missioni di pace. Si muore a casa, ammazzati dal coniuge, o in galera, vittime di un sistema penitenziario che lascia ben poco spazio alla “redenzione”. Si muore per una pioggia torrenziale o una calamità in un territorio saccheggiato dagli sciacalli della politica e dell’economia. Muore di freddo nelle strade chi non ha più casa e lavoro. Si muore di razzismo per squadracce e imbonitori televisivi che prosperano in un mondo dove violenza e profitto si fanno legge. Il 12 dicembre parla di una società che fa dell’ingiustizia il suo orizzonte stragistico quotidiano, in cui si rubano futuro e speranze, si tolgono dignità e lavoro, si fa della menzogna una verità ufficiale e dell’oblio il filo della memoria spezzato per il mantenimento del sistema di potere.”
Dal presidente di Arci Jesi-Fabriano Tullio Bugari:
Tanti i temi toccati, dalla strage del 12 dicembre ’69, di cui ricorre l’anniversario, alle tante altre, quelle legate ad un evento improvviso (Ustica, gli attentati sui treni, Portella della Ginestra, Lampedusa, TyssenKrup, il mese scorso parlavamo della Mecnavi di Ravenna, e altre), sia quelle che si consumano lentamente ma costantemente nel tempo, come uno stillicidio, come le morti sul lavoro, i morti di amianto, le stragi in mare dei profughi, il femminicidio, le troppe morti nelle carceri quando si è affidati allo Stato, ma anche le stragi di mafia e la mafiosità insita in ogni strage, e altro ancora. Nel mio contributo ho voluto ricordare la strage del Vajont, del 9 ottobre 1963, che tanti ancora si ostinano a scambiare per un disastro naturale. Ecco l’intervento, con cui ho cercato molto schematicamente di dare le informazioni principali:
Parlare del Vajont non significa soltanto ricordare le 1.917 vittime innocenti della frana, ma di prendere coscienza – come ha stabilito l’Onu nel 2008 – che “il Vajont è stato il peggior disastro procurato al mondo dall’uomo tra quelli che potevano essere evitati.”
Innanzitutto occorre specificare una cosa importante: al Vajont NON crollò la diga. Gli ingegneri l’avevano costruita bene. La scienza era all’altezza di ciò che faceva. E non era una diga qualunque ma all’epoca la più alta del mondo, 261 metri. Resse l’urto e ancora è lì, intatta, come un monumento alla vergogna perenne della politica, e della scienza quando è asservita alla politica.
Al Vajont franò una montagna, Il fronte della frana era già evidente da alcuni anni, lo si vedeva bene dal basso, disegnava una enorme M lunga circa 2 km.
C’erano state già frane, smottamenti e microterremoti. La gente aveva protestato, una giornalista aveva scritto articoli e la ditta costruttrice, la SADE, l’aveva denunciata per diffamazione e procurato allarme. Il Tribunale di Milano, caso raro e per la prima volta in Italia, aveva dato ragione a lei e alla gente: gli allarmi erano giustificati. C’era però la nazionalizzazione dell’energia elettrica. Occorreva che la diga fosse collaudata, cioè innalzato il livello dell’acqua, per ottenere un più alto indennizzo.
La sera del 9 ottobre del 1963 la montagna venne giù: circa 270 milioni di metri cubi di roccia: per dare un’idea, se avesse alla base un campo di calcio, la colonna di terra sarebbe alta 40 chilometri.
Ma la diga non crollò. La frana fece schizzare fuori 60 milioni di mc di acqua: la colonna d’acqua, in questo caso, sarebbe alta 6 o 7 chilometri. Saltarono fuori due onde gigantesche alte 200 metri. Una risalì la montagna sul lato opposto arrivando alle prime case del paese di Casso, 300 metri più in alto, e poi risalì la valle fino ad Erto, portando via altre case.
La seconda onda scavalcò la diga e precipitò nella gola verso Longarone, alla velocità di 80 km orari, arrivando in paese dopo un minuto. Molti morirono prima dell’arrivo dell’onda, schiacciati dalla massa d’aria compatta compresa dal muro di acqua.
Ma quando iniziò questa storia? E’ interessante vedere come certi meccanismi di potere finalizzati al profitto, si riproducano sempre. Il promotore della diga del Vajont, in quanto titolare della SADE, fu Giuseppe VOLPI – lo stesso della Coppa Volpi e del festival del cinema di Venezia. Era già stato governatore della Tripolitania, poi ministro dell’Industria durante il ventennio fascista e Presidente della Confindustria, salvo spostarsi in Svizzera dopo l’8 settembre e avvicinarsi al nuovo corso, dalla parte degli Alleati.
Il progetto fu approvato dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici il 15 ottobre del 1943, nel caos del dopo 8 settembre, della fuga del Re e della evasione di Mussolini dal Gran Sasso. Il 15 ottobre era il giorno prima del rastrellamento tedesco al ghetto di Roma. Erano stati capaci di far convocare il Consiglio in un simile caos. Una votazione illegale, tra l’altro, senza il numero legale. Ma sanò tutto un decreto del Presidente Einaudi del 21 marzo del 1948. Tre giorni dopo le famose elezioni.
La giornalista Tina Merlin, processata per procurato allarme ma anche assolta, era stata invece una staffetta partigiana. Spiegata così, la Storia sembrerebbe più chiara, ma al tempo stesso anche più complessa, dal punto di vista delle dinamiche del Potere.
La legge che istituì l’Enel è del 12 dicembre 1962, dieci mesi prima della frana; per la Sade significava vendere tutto all’Enel e naturalmente il prezzo sarebbe stato più alto se la diga fosse stata funzionante. Intanto, tutti gli uomini della Sade passarono a dirigere l’Enel. Sempre gli stessi. E’ in questa situazione che si procede ad aumentare il livello dell’acqua, fino ai punti massimi, per far salire anche il prezzo di indennizzo. Nelle ultime settimane lo slittamento della frana è visibile a vista, ci sono terremoti e anche dispacci di allarme inviati dai carabinieri del posto. Il 9 ottobre la montagna viene giù.
Ma la storia del Vajont, non finisce qui, continua anche dopo. Longarone non esiste più, ma i paesi di Erto e Casso, che sono in alto e solo parzialmente distrutti, la mattina dopo vengono evacuati e i superstiti portati via con la forza; l’Esercito impedirà il loro ritorno, entreranno clandestinamene di notte, per scendere giù in ciò che resta del lago e tirare su, clandestinamente e solo con le loro mani, i corpi dei familiari. Per cacciarli via gli toglieranno la corrente elettrica ma se la riallacceranno da soli, nel primo anniversario della frana, forzando il blocco e occupando ciò che restava del loro paese.
La ricostruzione, la gestione degli indennizzi e tutto ciò che segue meriterebbe tanto altro tempo; basta dire che dopo 50 anni ci sono ancora circa 600 famiglie che non hanno avuto adeguati risarcimenti, mentre tanti altri che non c’entravano nulla sono stati capaci di lucrarci sopra, dando un ulteriore colpo di grazia alla popolazione originaria. Le prime scuse da parte dello Stato sono arrivate solo dopo 50 anni, da parte del Presidente del Senato, lo scorso 9 ottobre. Un’importante vittoria ottenuta dal basso, da chi ha continuato a lottare. In un libro, questo strazio che prosegue viene chiamato “l’onda lunga del Vajont”.
Lo scorso 9 ottobre, per commemorare i 50 anni, si sono riuniti insieme ai cittadini per la memoria del Vajont altre associazioni, in rappresentanza di altre stragi, quelle dovute all’amianto, ad altri scempi ambientali e industriali ma anche politici, come la tav in valsusa, Marghera, Seveso, ThyssenKrupp e altre, ricercando insieme un punto di riferimento e di coordinamento. Nel loro manifesto di convocazione, si poteva leggere:
“Mettere in campo una strategia di lotta comune tra tutte le associazioni per ottenere le scuse da parte dello Stato italiano per la strage del Vajont e di Ustica; togliere dalla legge 9 ottobre “Per la memoria delle vittime dei disastri industriali e naturali causati dall’incuria dell’uomo”, la parola “incuria”; togliere dalla legge la prescrizione di 5 anni per i morti sul lavoro e di lavoro, quando sia stata provata la responsabilità diretta dei datori di lavoro; inserire nell’ordinamento giuridico il reato di depistaggio, come chiedono anche i familiari della strage del 12 dicembre a Milano.”
L’intervento dell’ANPI: www.facebook.com/groups/92362933780…