UTOPIE MINACCIATE. La rivoluzione in Kurdistan / mostra fotografica di Mauricio Centurion

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«Una rivoluzione ha un inizio ma non una fine, soprattutto quando si svolge nel mezzo di un continente assediato dallo sguardo vampiresco delle grandi potenze. Nell’agosto 2022 il Rojava ha celebrato un decennio di tentativi di autonomia, libertà e convivenza in una delle aree recuperate del Kurdistan. Le idee che il leader curdo Abdullah Öcalan scriveva dalla prigione turca di Imrali sono state messe in pratica in un territorio abitato da 4 milioni di persone di etnia curda, araba, siriana, armena e turkmena: protagonismo delle donne in tutti gli ambiti sociali, convivenza, autogoverno interetnico e rispetto dell’ecologia nei modi di produzione economica sono alla base del confederalismo democratico proposto da Öcalan come alternativa per la liberazione di un territorio situato tra guerre.

Questi dieci anni sono stati di lotta costante: prima la guerra per liberare i territori occupati dallo Stato Islamico e, raggiunto questo obiettivo nel 2019, il territorio curdo si è autodifeso dai continui attacchi e minacce di invasione da parte dello Stato turco – che ha il secondo esercito più grande della NATO. Negli ultimi anni le minacce di invasione sono state costanti, accompagnate da una “guerra a bassa intensità”. Più di cento attacchi di droni hanno causato la morte di 57 civili nel 2022 e, a novembre, il presidente Recep Tayyip Erdoğan ha dichiarato pubblicamente che avrebbe attaccato con artiglieria, aerei da guerra e soldati il territorio curdo, fino allo sradicamento totale di questa popolazione.

Per questo, il titolo utopie minacciate: in Kurdistan come in altri luoghi del mondo, ci sono persone che impiegano la propria vita ad immaginare e costruire un’altra modalità di esistenza e convivenza. Edificano scuole, ospedali, case, pozzi di raccolta dell’acqua, sviluppano infrastrutture utili, centraline elettriche. Si incontrano per prendere decisioni, si organizzano per difendere – anche con le armi – ciò che, in dieci anni, hanno costruito».

Ha inaugurato giovedì 25 maggio, alle ore 19, la mostra fotografica e audiovisiva Utopie Minacciate. L’importante edificio storico jesino, Palazzo Santoni, ha accolto la prima data nazionale del tour europeo di questo importante lavoro: 32 fotografie e un docufilm firmati dall’autore e fotoreporter argentino Mauricio Centurión e dal collettivo attivista SlumilCinko, tentano di dare voce alle comunità che si trovano in Rojava – zona tra i confini di Siria, Iraq e Turchia -, impegnate da anni nella difesa prima dall’Isis e poi dagli attacchi turchi, nella ricerca di autonomia, libertà e convivenza interetnica.

Protagonismo delle donne in tutti gli ambiti sociali, convivenza, autogoverno e rispetto dell’ecologia nei modi di produzione economica sono alla base della politica che queste numerose comunità, da anni, praticano: ecco è la storia che Mauricio Centurión e il collettivo SlumilCinko tentano di narrare. E tentano di farlo attraverso diversi mezzi creativi quali workshop, libri, dibattiti e performance: questi diversi approcci permettono di raccontate le esperienze rivoluzionarie del Rojava e del Chiapas (Stato del Messico, ndr.)  – diverse tra loro ma per alcuni versi molto affini -, aprendo spazi di confronto e dibattito riguardo un tema tanto importante quanto delicato, quale l’autonomia, l’autogestione e la libertà dei popoli. 

Proprio in questo ambito, domenica 28 maggio, alle ore 18, alla presenza del fotoreporter e di alcune componenti del collettivo, Palazzo Santoni ha aperto le porte alla presentazione del libro “Jchabivanejetic ta ac’ubal – Guardiani della notte” – a cura di SlumilCinko e de La Parcería Edita -, un fotoracconto delle comunità zapatiste e delle comunità indigene delle Abejas de Acteal nel sud-est del Paese.

La mostra è stata prodotta e organizzata dall’associazione jesina Arci Jesi Fabriano, in collaborazione con il collettivo di allestitori LaMuuf e con il patrocinio del Comune di Jesi – Assessorato alla cultura. È curata collettivamente da Carolina Mancini, Samantha Nisi e LaMuuf. La cura dei collage e degli schizzi si deve a Kulturivora. La mostra è sostenuta dal progetto Viridee Marche, finanziato dalla Regione Marche. 

Testo curatoriale

L’allestimento pensato per questo lavoro fotografico rispetta l’ esigenza e il desiderio di una mostra itinerante, contenibile in una valigia e riconfigurabile in qualsiasi luogo. L’altra emergenza che lo ha ispirato è quella di dialogare concettualmente con l’esperienza peculiare dell’impresa documentaristica e artistica di Mauricio Centurion. Il perimetro nero che circonda le fotografie simbolizza una stanza che è anche secreta, alveo, enclave, ricavato all’interno della sala ospitante, all’interno dei padiglioni europei del consumo culturale. Esso dichiara reticenza a farsi accogliere negli spazi istituiti da una civiltà “risolta”. Vuole ostinatamente segnalare una sua discrepanza. Ne è “l’intruso”. Rinvia alle architetture mobili e fittizie, ai tendaggi di accampamenti arrangiati (per motivi stra-ordinarii). La sua permanenza, per quanto breve, non si adegua ai costumi del luogo. Ha l’invadenza di ciò che è irriducibilmente estraneo.

Davvero a noi sono sconosciute le vicende di queste popolazioni dilaniate da conflitti violenti, così come tutte le contese politiche che li animano. Mai nessun media nazionale ci ha ravvisato sulle condizioni di quegli stati. All’interno della stanza, la valigia che accoglie una fotogenia cruda e sapientemente angolata, affinchè il nostro gusto di animali estetici possa apprezzare tutta la drammaticità del mondo, ed avere una ulteriore certificazione sul nostro vantaggio di fruitori: poter sorvolare la storia, nella sua accezione più alta, conflittuale, in una visione epica a distanza.

Così questa mostra può attraversare più luoghi e città, quale vessillo che insedia la caverna delle nostre immagini e simboli. L’arte con funzione testimoniale è sempre più che arte, è volta a riscattare un’assenza, accecare un potere, infiammare una rivolta, una indignazione, cercare un’alleanza. Come le comunità insorte costituiscono una piccola cellula autonoma e autodiretta, un corpo esterno/interno al territorio sociale e politico, anche la nostra stanza-parassita si disloca attraverso un insediamento spiazzante, per la straordinarietà dell’evento che vuole raccontare.

Le immagini, sono state affisse su scampoli di materiali diversi e poveri, non solo per rievocare le materie dei popoli rappresentati, ma per il vantaggio di potersi proporre anche in quei luoghi sprovvisti di musei, cornici, pannelli, appalti fastosi proprio della civiltà occidentale, a cui sono però principalmente dedicate. È infatti nella nostra felice parte di mondo, in cui anche gli orrori e le tregende sono spettacoli ed eccitanti traumatismi, che questa altra parte di mondo si segnala allo sguardo implorando di non essere fagocitata, ridotta a ennesima ricorrenza di una visione.

La mostra non vuole suscitare nessun interventismo diretto- sarebbe una velleità impensabile e forse importuna – ma forse la diffidenza, l’abbandono di tutta la paccottiglia informatica che intossica le nostre esistenze. Quel ciarpame audio-visivo implicato in quei soprusi lontani, che si perpetrano laggiù, fuori dallo schermo: inaccettabili e inaccessibili, immemorabili e inappropriabili. Meno familiari del nostro immaginario onirico e cinematografico, per cui incomprensibili, impensabili, irrafigurabili e indesiderabili.

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